Un recente approfondimento su Nature richiama l’attenzione alla dieta seguita dagli animali impiegati nella ricerca scientifica: anche se spesso sottovalutata, ha un ruolo importante nel determinare i risultati e la riproducibilità degli esperimenti, nonché sul benessere degli animali

Sono tantissimi gli articoli, scientifici e divulgativi, dedicati alla dieta per noi esseri umani: ormai sappiamo benissimo quanta influenza abbia ciò che mangiamo sul nostro benessere. Anche per gli animali domestici, o almeno per i pet che vivono con noi, vi è molta attenzione all’alimentazione e sono tanti i proprietari che verificano quanto possa cambiare la salute dell’animale (la qualità del pelo, i disturbi della pelle e quelli gastrointestinali e così via) in base ai diversi tipi di dieta o alle diverse marche di cibi pronti.

Per gli animali impiegati nella ricerca scientifica, l’alimentazione non è meno importante. E, in questo caso, il ruolo della dieta non si esplica solo sullo stato di salute dell’animale ma anche sui risultati e sulla riproducibilità degli esperimenti nei quali vengono impiegati. Al tema, Nature ha di recente dedicato un interessante approfondimento, ripercorrendo una serie di esperimenti e condizioni che, da una parte, evidenziano quanto la dieta possa influenzare i risultati dei test e, dall’altra, stimolano alcune riflessioni su come favorire il benessere degli animali negli stabulari.

La dieta degli animali e la riproducibilità degli esperimenti

L’esempio da cui parte l’articolo di Nature si riferisce a due esperimenti condotti più o meno in contemporanea, negli anni Ottanta, da due diversi gruppi di ricerca statunitensi. In entrambi i casi, l’obiettivo era verificare se una restrizione dell’introito calorico quotidiano potesse prolungare la vita del macaco rheso, un primate ampiamente coinvolto nella ricerca scientifica. Ed entrambi i gruppi avevano puntato su una dieta che prevedesse il 30% delle calorie in meno rispetto a quelle che gli animali assumevano abitualmente. Eppure, i risultati sono stati profondamente diversi, con un gruppo di ricerca che ha osservato un prolungamento della vita degli animali e l’altro che ha trovato l’esatto opposto. La ragione di questa differenza, come ha evidenziato un articolo apparso nel 2017 (quindi diversi anni dopo gli esperimenti originali) sembrerebbe essere proprio nella dieta, in particolare in termini di qualità degli alimenti e tempistiche di accesso al cibo.

La dieta, per quanto riguarda gli animali impiegati nella ricerca scientifica, è di norma standardizzata, cioè con un preciso apporto calorico e determinate percentuali di carboidrati, grassi, proteine e fibre, e in commercio si trovano diversi mangimi per le specie più comunemente usate, come i ratti e i topi. La più diffusa è quella nota come AIN-93, che consiste in crocchette contenenti principalmente carboidrati e proteine del latte, arricchite con tutti i micronutrienti necessari al fabbisogno dell’animale. Tuttavia, come riporta un articolo pubblicato su Science Magazine, già con questa dieta standardizzata si possono verificare diversi problemi: gli ingredienti purificati, di facile digeribilità, possono determinare per esempio un aumento del grasso corporeo o alterazioni del microbiota intestinale, che a loro volta influenzano i risultati dell’esperimento. E se, da una parte, un possibile miglioramento potrebbe venire da una riformulazione della dieta AIN-93, rimangono – come evidenzia l’articolo di Nature – diversi altri problemi legati all’alimentazione fornita agli animali da laboratorio. Uno di questi, per esempio, risiede nella fonte di origine delle varie componenti: è il caso dei carboidrati, che in molti casi si ottengono dalla soia o dal mais, piante che hanno però anche contenuti diversi di fitoestrogeni (ormoni di origine vegetale). Questi possono influenzare numerosi aspetti della fisiologia degli animali, umani e non. Inoltre, va anche considerato che lotti diversi dello stesso prodotto possono avere livelli diversi di fitoestrogeni, producendo quindi differenze anche in animali nutriti con la stessa dieta ma, semplicemente, lotti differenti.

Anche tra le diverse diete standardizzate quindi vi è moltissima variabilità, di cui diventa fondamentale tenere conto quando si progetta un esperimento al fine di ridurre al minimo le variabili; infine sarebbe anche bene, possibilmente, specificare poi nei report quale dieta è stata somministrata agli animali. Come commenta infatti su Nature Caroline Tuck, dietologa dell’Università di La Trobe (Melbourne, Australia) che nel 2020 ha pubblicato un articolo su come le diverse diete influenzassero il microbioma dei topi di laboratorio, «Quando si pubblica un articolo scientifico, si scrive di quando gli animali avevano accesso al cibo e all’acqua, ma anche specificare esattamente la dieta è molto importante».

Dieta, benessere e risultati dei test

In generale, come abbiamo avuto modo di ricordare in altri articoli, è poi ben noto come le condizioni psicofisiche possano influenzare il risultato degli esperimenti. Un animale stressato, che vive in condizione di deprivazione, può dare risposte (e quindi risultati ai test) molto diversi da quelli forniti da un individuo della stessa specie che però si trova in buone condizioni psicofisiche. Questa è una delle ragioni per cui, per esempio, le procedure sono guidate dagli humane endpoint, che indicano i limiti entro i quali possono dover essere interrotte, richiedere misure per ridurre la sofferenza o la soppressione dell’animale. E naturalmente, in termini di benessere, la dieta ha un ruolo fondamentale: secondo Kristin Gribble, biologa molecolare del Marine Biology Laboratory in Woods Hole, «Alcune diete di laboratorio non si avvicinano nemmeno lontanamente a ciò che gli animali mangerebbero in natura. Non è il profilo nutrizionale a cui quegli organismi si sono adattati, quindi anche solo questo potrebbe cambiare i risultati dell’esperimento». Per questa ragione, la ricercatrice incoraggia colleghe e colleghi a riflettere sulla storia naturale dell’animale impiegato – in particolare quando si tratta di specie selvatiche e prelevate in natura, come avviene in alcuni studi.

Ancora, un altro punto che vale la pena citare è che non è solo la composizione della dieta a poter influenzare lo stato dell’animale ma anche i tempi nei quali gli è reso disponibile il cibo. Non è un caso che lo studio del 2017 dedicato al confronto tra i set up sperimentali delle ricerche sull’influenza della dieta sulla vita del macaco rheso ne abbia tenuto conto. Infatti, anche l’avere (o il non avere) il cibo sempre a disposizione si è dimostrato un fattore importante. Per esempio, la disponibilità di cibo ad libitum (cioè sempre presente nelle gabbie) è la più impiegata, perché molto pratica nella gestione degli stabulari, ma è stata correlata a obesità, disturbi neurodegenerativi e aumentata incidenza di tumori nei topi e nei ratti. Alcune ricerche su quali siano le migliori tempistiche per l’alimentazione sono comunque già disponibili: uno studio del 2020, per esempio, ha mostrato come altri tipi di organizzazione possano portare a una riduzione del peso corporeo (nutrendo gli animali solo una volta al giorno oppure con strumenti che distribuivano automaticamente il cibo diverse volte al giorno – da notare, però, che in quest’ultimo caso si osservava anche un aumento di metaboliti legati allo stress e comportamenti stereotipati, a indicare un minor benessere degli animali).

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